Viene definita barriera architettonica qualunque elemento costruttivo che impedisca, limiti o renda difficoltosi gli spostamenti o la fruizione di servizi (specialmente per le persone con limitata capacità motoria o sensoriale, cioè portatrici di handicap).
Da questo consegue che un elemento che non costituisca barriera architettonica per un individuo può invece essere di ostacolo per un altro; si capisce quindi che il concetto di barriera viene percepito in maniera diversa da ogni individuo. Il bisogno di garantire al maggior numero di persone il diritto alla libertà di movimento, ha portato alla ricerca di parametri comuni. Il passo più importante è stato fatto a livello normativo andando a individuare quali elementi costruttivi siano da considerarsi barriera architettonica.
Esempi classici di barriera architettonica sono: scalini, porte strette, pendenze eccessive, spazi ridotti. Esistono innumerevoli casi di barriere meno evidenti, come parapetti “pieni”, che impediscono la visibilità a una persona in carrozzina o di bassa statura; i banconi dei bar troppo alti, sentieri di ghiaia o con fondo dissestato. Nel caso di persone non vedenti possono rappresentare casi di barriera architettonica anche semafori privi di segnalatore acustico o oggetti sporgenti;
Possiamo affermare che dalla definizione di barriera architettonica, anche attraverso la lettura del documento ICF del 2001, siamo passati al concetto di conflitto uomo-ambiente, ovvero a quella serie di ostacoli e impedimenti, di forma temporanea o permanente, che impediscono all’utente di fruire in piena sicurezza di tutta quella serie di funzioni, attrezzature e servizi che lo spazio antropizzato dovrebbe garantire a tutte le categorie d’utenza. In tal senso accanto alle barriere fisiche e percettive si apre il mondo delle barriere comunicative, ovvero di tutti i segnali che l’ambiente genera nei confronti dei propri fruitori.
Parlando invece di barriere virtuali si possono menzionare alcuni siti internet non conformi agli standard di accessibilità.
Il quadro legislativo
La legge quadro italiana che tratta il problema dell’accessibilità è la legge n. 13/1989, che stabilisce i termini e le modalità in cui deve essere garantita l’accessibilità ai vari ambienti, con particolare attenzione ai luoghi pubblici. Il D.M. n. 236/1989 (decreto attuativo) si addentra maggiormente nella parte tecnica e individua tre diversi livelli di qualità dello spazio costruito.
Questi tre livelli sono:
• Accessibilità: possibilità per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale di raggiungere l’edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruire di spazi e attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e autonomia.
• Visitabilità: possibilità per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale di accedere agli spazi di relazione e ad almeno un servizio igienico di ogni unità immobiliare. Vengono considerati spazi di relazione gli spazi di soggiorno dell’alloggio e quelli dei luoghi di lavoro, servizio e incontro, nei quali il cittadino entra in rapporto con la funzione ivi svolta.
• Adattabilità: possibilità di modificare nel tempo lo spazio costruito a costi limitati, allo scopo di renderlo completamente e agevolmente fruibile anche da parte di persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale.
Sempre il D.M. n. 236/1989 stabilisce anche, per gli edifici e gli spazi privati, i parametri tecnici e dimensionali correlati al raggiungimento dei tre livelli di qualità sopra riportati: per esempio le dimensioni minime delle porte, le caratteristiche delle scale, la pendenza delle rampe pedonali, gli spazi necessari alla rotazione di una sedia a ruote, le dimensioni degli ascensori e le casistiche della loro necessità, le caratteristiche di un servizio igienico accessibile e altri ancora. I requisiti vengono stabiliti in modo differenziato a seconda della tipologia degli edifici e degli spazi. Ogni nuova costruzione deve infatti rispettare tali norme, e i vecchi edifici devono essere opportunamente adeguati alla normativa in caso di ristrutturazione.[1].
Per quanto riguarda gli edifici e gli spazi pubblici vi è stata l’emanazione di un ulteriore decreto attuativo.
Le normative di riferimento per eventuali approfondimenti sono:
• legge n. 13/1989;
• D.M. n. 236/1989;
• legge n. 104/1992;
• D.P.R. n. 503/1996;
• D.P.R. n. 380/2001 (artt. 77-82)
P.E.B.A.
I P.E.B.A. o Piani per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche (art. 32, comma 21 della legge n. 41/1986 e art. 24, comma 9 della legge n. 104/1992) sono uno strumento che ha la finalità di conoscenza delle situazioni di impedimento, rischio e ostacolo per la fruizione di edifici e spazi pubblici. Questi piani rappresentano il punto di partenza per la redazione di Piani Pluriennali di Abbattimento delle barriere architettoniche.
Possiamo definire il P.E.B.A. come uno strumento metaprogettuale, necessario ad avviare procedure coordinate, per eseguire gli interventi di “attenuazione” dei conflitti uomo-ambiente. È quindi il preludio, la base, sulla quale cominciare tutte quelle azioni di “design urbano” che mirano a interventi più o meno dedicati. Il P.E.B.A. ha come obbiettivo generale quello di produrre conoscenza al fine di poter intraprendere concretamente le azioni di progettazione in grado di mirare all’innalzamento della qualità della rete di servizi, tempi e occasioni fornite dalla città, partendo dalle necessità di chi maggiormente richiede attenzioni, per giungere a definire risposte, capaci di garantire il quadro associante a cui mira una città solidale e quindi accessibile. Secondo questa visione, il piano è così strumento, trasversale, di analisi e verifica, necessario per alfabetizzare, utenti e gestori della città a una cultura dell’accessibilità.