La disponibilità di uno spazio abitativo, dove dimorare, ripararsi e sviluppare la propria vita privata, spesso insieme alla famiglia, è esigenza di ogni persona. La Costituzione italiana non riconosce, in modo esplicito, il diritto alla casa: né al cittadino italiano né allo straniero.
E’ noto come la casa e il lavoro siano per gli immigrati i problemi più gravi che essi incontrano nel processo di integrazione. La disponibilità di una casa salubre e dignitosa è poi condizione essenziale per lo straniero, regolarmente soggiornante, che voglia prestare garanzia per l’accesso al lavoro di altro straniero o per esercitare il diritto al ricongiungimento familiare.
Il problema abitativo, rilevante per molti italiani, lo è ancor di più per gli stranieri immigrati. Risulta piuttosto difficile stimare l’esatto numero degli immigrati senza casa. Il Secondo Rapporto sull’Integrazione, redatto dalla Commissione nazionale per le politiche d’integrazione degli stranieri, ipotizza che il 3% degli immigrati stranieri si trovi in condizioni abitative di estrema precarietà (tra le 40 e le 50.000 persone), cioè coabitazioni costrette, sovraffollamento e abitazioni malsane.
La prima edizione del Rapporto sottolineava invece come “una specificità italiana preoccupante riguarda le forme estreme di povertà abitativa: da noi la homelessness (la condizione di chi è senza casa o senza dimora) colpisce gli immigrati in misura maggiore che negli altri Paese europei”.
In generale, secondo l’indagine della Commissione, in Italia molti immigrati pur con un reddito fisso sono male alloggiati, quelli considerati poveri sono spesso senza casa, e le loro sistemazioni sono spesso peggiori e/o più costose rispetto a quelle accessibili agli italiani con le stesse caratteristiche di reddito. Inoltre, se è vero che la condizione di irregolarità è un fattore importante dell’esclusione abitativa, è significativo come questa esclusione riguardi anche gli immigrati regolari e con un lavoro.
Precarietà, canoni sproporzionati, condizioni abitative degradate, sovraffollamento sono le condizioni di disagio che spesso differenziano gli inquilini stranieri dagli italiani. A tutto questo va poi aggiunta la resistenza di molti proprietari ad affittare a stranieri e quindi, di fatto, l’ulteriore restringimento di un’offerta già di per sé insufficiente per i bisogni abitativi degli immigrati.
Alcune ricerche hanno dimostrato come l’incontro degli immigrati con il mercato dell’affitto abbia dato vita a un mercato specifico: il ricorso ad alloggi “inabitabili” – cioè al di sotto dei criteri minimi che oggi definiscono l’abitabilità in Italia – indica la riemersione di un patrimonio, ormai fuori mercato, di edifici che risultavano irrecuperabili alle esigenze degli italiani. Questo mercato specifico è poi caratterizzato dalle forti connotazioni di irregolarità (affitto in nero) e dai costi molto alti delle sistemazioni rispetto a quelli richiesti alle famiglie italiane. Inoltre, pagare un prezzo più alto per alloggi di qualità analoga – come insegnano le esperienze di molti Paesi – è indice di discriminazione nei confronti di una parte della popolazione (sulla discriminazione verso gli stranieri nel mercato della locazione si veda il Rapporto della Rete d’urgenza contro il razzismo).
Tale discriminazione, nel caso dell’Italia, non è necessariamente frutto di pregiudizio razziale, ma è resa possibile dalle condizioni del mercato dell’affitto.
La nuova legge sull’immigrazione introduce poi delle limitazioni per l’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica (ERP) degli immigrati regolarmente soggiornanti: in particolare, la possibilità di partecipare ai bandi di assegnazione degli alloggi è limitata agli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno valido almeno due anni, e che inoltre esercitino una regolare attività di lavoro subordinato o autonomo.